sabato 21 aprile 2007

La filosofia del post-umano: nuova frontiera del soggetto di Antonio Caronia, Mario Pireddu e Antonio Tursi

La filosofia del post-umano: nuova frontiera del soggetto

di Antonio Caronia, Mario Pireddu e Antonio Tursi

Non è la prima volta che l’uso di un termine è causa di ambiguità e di confusione nella comprensione del concetto che vuole esprimere o del processo che vuole descrivere. Questo è tipico in particolare dei neologismi con prefisso post-, che si riferiscono al superamento o alla profonda modificazione di una situazione mentre il processo è ancora in corso, e quindi non è ancora chiaro l’approdo, neppure provvisorio, a cui essi tendono. Col termine “post-umano” sta accadendo qualcosa del genere, come peraltro già accadde col termine “post-moderno”. Come in quel caso, post-umano si riferisce a una serie di trasformazioni di portata molto generale che riguardano il rapporto dell’uomo col mondo e i dispositivi di regolazione delle culture: in definitiva l’uso di questo termine segnala che siamo in presenza di nuove caratteristiche del cammino dell’umanità che, iniziato un miliardo e mezzo di anni fa con la comparsa delle prime specie di primati a stazione eretta e a vocazione tecnica, non ha mai smesso di trasformarsi e di ridefinirsi ad ogni nuova tappa del connesso sviluppo delle tecniche e delle culture. È vero che, come nel caso del dibattito sul post-moderno, anche il termine post-umano finisce per coprire una serie di visioni molto diverse e spesso antitetiche, tutte sviluppate a partire dal riconoscimento comune del carattere di nuova soglia tecnologica e culturale che i processi in corso comportano. È bene osservare però che in questo dibattito i sostenitori delle posizioni più radicali ed essenzialiste (coloro, cioè, che mettono l’accento esclusivamente o prevalentemente sulle modificazioni morfologiche a cui l’uomo dovrebbe prepararsi per effetto dei nuovi strumenti messi a disposizione dalle tecnologie informatiche, biologiche e bioinformatiche), preferiscono utilizzare il termine “trans-umano”.

A differenza di questi ultimi (come Hans Moravec, o i redattori della Dichiarazione transumanista del 1999, Max More e altri), non riteniamo che il punto sia quello della nascita – desiderabile secondo loro, da esorcizzare o da respingere secondo altri – di una nuova specie che si appresti a sostituire l’homo sapiens a seguito di una serie di ibridazioni con le tecnologie: queste posizioni le consideriamo deboli, intrinsecamente contraddittorie, e pensiamo anche, come ha osservato il biologo Roberto Marchesini, che esse non superino affatto l’umanesimo e l’antropocentrismo della tradizione occidentale, ma al contrario ne rappresentino una tardiva e iperbolica esaltazione. Il pensiero del post-umano non deve limitarsi ad esaltare acriticamente una “nuova specie” che attraverso la tecnologia sconfigga la morte, ma deve certamente assumere tutta la complessità di una situazione nella quale sono entrati in crisi i tradizionali rapporti fra dato biologico e dato culturale. Post-umano significa, in questo senso, il riconoscimento che l’equilibrio fra componenti culturali e componenti biologiche nell’essere umano sta cambiando in modo più radicale di quanto non sia mai cambiato nella storia della specie, ma che questa discontinuità è comunque effetto di una storia evolutiva che non viene affatto negata. Se i processi di ibridazione stanno subendo un’estensione e un’accelerazione senza precedenti, ciò non deve far dimenticare che l’ibridazione è sempre stata presente nella storia dell’umanità, e che su di essa si è basato ogni processo culturale. Quello che oggi c’è di nuovo è che il ritmo di trasformazione culturale e tecnologica sta mettendo in discussione il ruolo che la biologia dell’essere umano aveva sinora avuto, e cioè quello di segnare il limite dell’evoluzione culturale. Questo è conseguenza del salto che le culture stanno facendo da una scala locale a una scala globale, da una dimensione di adattamento a una dimensione di espansione, da una sfera di intervento limitata alla materialità del mondo esterno alla possibilità di influire direttamente sulla dimensione genetica e biologica dell’essere umano stesso.

Di fronte a processi di tale portata lo sgomento e lo sconcerto possono essere reazioni comprensibili, ma impediscono di valutare con chiarezza la situazione, e soprattutto suggeriscono interventi di rifiuto e di ritorno a uno statu quo ante che, oltre a essere impossibili, ci lasciano disarmati di fronte alle conseguenze più negative dei processi stessi. L’atteggiamento più giusto, di fronte alle tematiche del post-umano, ci pare quello che Karl Marx propose di fronte al capitalismo: non rifugiarsi in un impossibile “ritorno al passato”, ma assumere coraggiosamente la nuova situazione economica, sociale e culturale per fare emergere al suo interno le possibilità di liberazione dell’umanità dallo sfruttamento e dal dominio, un obiettivo che solo le nuove condizioni, e non le antiche, permettevano. Così oggi affrontare i problemi del post-umano significa lavorare perché le nuove possibilità dispiegate dalla tecnologia significhino possibilità di emancipazione e di sviluppo di nuove soggettività.

Confrontarsi con l’orizzonte post-umano comporta aprirsi all’alterità di un mondo globalizzato e abbandonare le rivendicazione di un “umanesimo” che è stato quasi sempre sinonimo di antropocentrismo: oggi che il diverso ci è sempre più vicino, non è più accettabile la pretesa di de-finire l’Uomo in base a limitate categorie (ragionevole, bianco, colto, proprietario, occidentale). Ancora: è stata la cibernetica a mettere addirittura l'accento sulle possibilità comunicative del non-umano, inteso come macchina (o come animale), e appare ormai meramente autocelebrativo il richiamo alla differenza dell'umano in quanto unico essere capace di comunicazione. Tralasciando pure il discorso sulle macchine, è quasi banale ricordare come siano tantissime le specie animali in grado di comunicare, e di farlo in maniera anche molto complessa, non solo tra conspecifici ma anche tra appartenenti a specie differenti. Il concetto di post-umano, dunque, lungi dall'essere anche solo simile a quello di post-organico o trans-umano, implica per noi il riconoscimento della necessaria apertura all'altro e all'alterità per la definizione di ciò che siamo in quanto umani.

Infine, non possono essere taciute le dirette ricadute che il discorso del post-umano ha sulla sfera del politico e dei diritti: a questo proposito non c'è a nostro avviso nessun tentativo di "onnipotenza" nel voler comprendere più da vicino la natura delle relazioni tra uomo e tecnologia – come ha invece suggerito di recente Pietro Barcellona nella sua lectio magistralis in onore di Pietro Ingrao dal titolo "L'epoca del post-umano". Non consideriamo onnipotenza l'utilizzo di determinate competenze per contrastare l'insorgere di nuove malattie o per combatterne di già esistenti. Il problema semmai si pone quando si esercita un controllo tale per cui anche le forme di intervento che più dipendono – o dovrebbero dipendere – dal libero esercizio della volontà individuale vengono negate nel nome di una tensione morale che non sempre appartiene a tutti. Come è accaduto per la legge 40 sulla fecondazione assistita, con cui si è negato il diritto della donna all'utilizzo consapevole delle tecnologie per la procreazione, e come accade quotidianamente per chi sente il bisogno di chiedere la sospensione di terapie che non curano più, ma si limitano a prolungare la morte. In quest'ultimo caso ad essere negato è il diritto al rifiuto consapevole della partnership tecnologica, laddove la si ritenga ormai un peso e non più un aiuto.

L’orizzonte post-umano si presenta, dunque, come richiamo all’autonomia della sfera personale, alla consapevolezza nell'accettazione e nella rinuncia, all’attraversamento delle soglie e all’ibridazione con l’alterità. Non più hybris come momento di crisi ma come motore di coniugazione, non più le tecnologie e i media come meri strumenti ma come parti di noi stessi, del nostro vivere, del nostro abitare.

[“Liberazione”, 21 aprile 2007]

lunedì 2 aprile 2007

Il gioco tra scienza e arte - arrythmiston e rhytmos di Francesco Monico

Nella didattica e nella ricerca dei fenomeni artistici oggi bisogna considerare due vie: da un lato la portata lirica di tali fenomeni, come espressione di una volontà che sdegna di lasciarsi rinchiudere e strutturare in aridi schemi e leggi fisse; dall’altro bisogna proporsi di studiarli nelle loro regolarità formali, di scoprirne i ritmi cioè i loro tracciati, o come intendevano i sofisti , nei loro rhytmos.

Il rhytmos è il susseguirsi regolare e proporzionato del processo artistico così come la loro forma distintiva, la loro figura proporzionata da vincoli, la loro disposizione nello spazio ambientale dei concetti dominanti. Il rhytmos è, dunque, quello che noi oggi rendiamo come modello, struttura e regolarità, oggi conosciuto nel mondo anglosassone come 'pace', cioè l’organizzazione formale delle possibilità creative.

Il concetto opposto è arrythmiston, questo concetto a differenza di quanto molti pensano non è stato prodotto da Aristotele ma da Antifonte il Sofista; l’arrhytmiston è il “libero da struttura” di Heidegger e anche il fondo, “grund”, di Schelling. Ed è nella comprensione di entrambe queste forme che possiamo cogliere un modello. In questo senso rhytmos/arrythmiston possono essere equiparati alla figura/sfondo della gestalt.

La psicologia della gestalt è prima di tutto una teoria della sensazione; la sua tesi è che i processi sensoriali e cognitivi siano organizzati sulla base di configurazioni unitarie e strutturate, secondo il principio olistico per cui il tutto è qualcosa di più e diverso dalla somma delle parti, come nei pincipi emergenti. Perchè nel tutto c’è il “gioco” tra figura e sfondo che crea un’emergenza. Una melodia è più di una somma di suoni, tant’è che può essere eseguita in un’altra chiave o tonalità rimanendo alla fine la stessa la stessa melodia, sebbene le sue componenti prettamente acustiche siano cambiate. Per gli stessi motivi quello che percepiamo, cioè il processo cognitivo creativo è il risultato di un sistema di componenti internamente strutturato in infinite parti in relazione dinamica una con l’altra e una con il tutto.

Si crea così una ristrutturazione delle informazioni provenienti dalla realtà; una riorganizzazione dell’equilibrio sensoriale detto anche 'ratio sensoriale'. In questo senso l’immagine sensoriale è un campo di forze (risonanti), perchè gli elementi in essa presenti, pur separati nello spazio, si condizionano e interagiscono a vicenda, esattamente come le forze elettriche o elettromagnetiche.

Ne risulta che ogni processo creativo è sempre una scelta, ossia una attribuzione, all’interno di un campo di possibilità, di una particolare importanza di certi stimoli considerati utili al processo mentale e di un trascuramento di altri, non considerati utili al processo mentale. L’oggetto è sempre quello ma colto dalla mente in diverse configurazioni.

Il termine che emerge da queste considerazioni è quello di insight, intuizione, che significa letteralmente il “vedere dentro” e indica quel fenomeno per cui un qualsivoglia contenuto mentale appare comunque come un’idea improvvisa e inaspettata.

L’idea di insight è stata usata da T. Khun per spiegare il mutamento rivoluzionario dei paradigmi scientifici, cioè quel fenomeno storico per cui l’intera realtà naturale dà origine all’improvviso a una diversa realtà, tale per cui si attribuisce significato a elementi prima insignificanti, e viceversa.

Così il gioco rhytmos e arrythmiston ha luogo nella progettazione. Entrambi i punti di vista hanno utilità cognitiva e possono essere riportati a due culture, l’arrythmiston lirico è la cultura artistica, il rhytmos strutturato è la scienza.

Oggi la questione delle due culture è superata nel concetto di 'concordanza', cioè la tendenza a unirsi delle principali discipline scientifiche e umanistiche. Oggi la didattica e la ricerca devono affrontare l’opera sia da un punto di vista artistico sia da quello scientifico perché nel gioco tra i due punti di vista ci sarà la possibilità di avere un’esperienza sensoriale dell’opera.

Oggi la sistematizzazione del proprio sapere si ripartisce tra discipline quali la matematica, l'epistemologia, la fenomenologia, la mediologia, la semiotica, la teoria dell’Informazione, la linguistica, la cibernetica, la psicologia. Questo approccio non è nuovo nella tradizione culturale dell’Occidente; fin dalla Poetica di Aristotele e dai canoni di proporzioni delle arti figurative greche i fenomeni estetici sono stati analizzati razionalmente: la filosofia è scienza tecnologica per i greci così come la sophistikè techné, ma la scienza è anche interpretazione immaginativa.

Tuttavia i temi dell’opposizione tra i due approcci, teorizzati dalle filosofie romantiche e idealiste da Schelling e Croce sono diventati dei cliché della nostra cultura: l’artista libero creatore, divino artefice, genio sregolato che agisce rispondendo solo a se stesso. Mentre lo scienziato risponde alla comunità culturale con una metodologia pubblica e per poterlo fare, cerca gli schemi descrivibili della realtà, e quindi in qualche modo la impoverisce per studiarla.

Ma non è difficile trovare i momenti di quella solidarietà che non ha mai cessato di collegare i due ambiti tra loro. Il metodo scientifico ha i suoi momenti cruciali nell’ipotesi e nell’esperimento e anche l’arte moderna e contemporanea si costruisce come esperimento e se tale peculiarità è dichiarata solo da alcuni decenni in realtà essa è presente fin dal rinascimento.

Fondamento e spinta motivazionale alla forma dell’arte e della scienza sono i mezzi produttivi e i rapporti di produzione, cioè la struttura economico-sociale. Così il criterio fondamentale delle attività dell’Accademia come la scienza e l’arte è l’utile, il loro interesse sociale.

La tecnologia corrente è il prodotto della realizzazione dei mezzi produttivi all’interno di uno specifico sistema di rapporti di produzione e essa trova definiti i suoi limiti e le sue linee di sviluppo nella costruzione di un modello di reale, di un processo di realtà, su cui operare il processo scientifico. Il lirismo artistico è una ricerca anarchica e pulsionale dove l’uomo è libero, finalmente, da sé stesso. Oggi l’arte è una scienza portata alle sue estreme potenzialità, e chissà in che cosa si trasformerà.


Per tutto ciò

La didattica cerca di andare alla ricerca delle analogie profonde, delle omologie di struttura tra metodo artistico e metodo scientifico. Così arrythmiston e rhytmos sono entrambe attività di progettazione, di attribuzione di senso, di mediazione della realtà, ed è infine nel loro incontro, che si svela la dinamica bellezza della natura; Arte e Scienza sono momenti della stessa funzione che da senso al mondo, la funzione della prassi cognitiva, del lavoro, e dell’opera.

francesco monico http://www.thelightbrigade.org 02/03/2004