venerdì 15 agosto 2008

Massimo Canevacci - Lettera aperta per la Facoltà di Scienze della Comunicazione La Sapienza Roma

Le nuove scelte didattiche della Facoltà di Scienze della Comunicazione dell’Università “La Sapienza” mi impongono di rendere pubbliche alcune perplessità, poiché, a fronte di un’indubbia crisi dell’ordinamento triennale, si è deciso di ristrutturare l’ordine degli studi secondo una visione della comunicazione restaurativa e schiacciata sull’esistente. In tal modo, la scienza della comunicazione rischia di ridursi a una preparazione
professionale di taglio giornalistico; le connessioni sperimentali e trans-disciplinari con quanto emerge nella comunicazione digitale (estesa tra design, architettura, pubblicità, performance, musiche, moda, arte ecc.) spesso risultano incomprese, “non controllate” o neutralizzate in “tecniche”; e vengono ignorate, di conseguenza, quelle ricerche che stanno tentando modificare paradigmi espositivi, composizioni espressive, narrazioni multisequenziali. Tale tendenziale rinchiudersi della comunicazione dentro un giornalismo asfittico e un’apologia dei media impoverisce la Facoltà, trasforma i docenti in funzionari dell’“industria culturale”, addestra gli studenti alla rinuncia all’innovazione e all’assenso disciplinato, chiude alle nuove professionalità che attraversano visioni, stili, linguaggi, è indifferente alle prospettive che nelle università estere da tempo vengono applicate in questo ambito (si veda il ruolo dell’antropologia culturale nei Media Studies in tante università estere – MIT, Humboldt Universität, Escola de Comunicação e Arte dell’Università di São Paulo con la quale ho stabilito un accordo di scambio tra docenti e studenti). Tutto questo rischia di configurare provincialismo disciplinare, endogamia mass-mediale, diffidenza dell’emergente, sottrazione delle potenzialità digitali. La materia che ho insegnato per più 20 anni – Antropologia Culturale, materia fondamentale per gli studenti di primo anno – è stata soppressa, mentre a Roma, in Italia e ovunque, sarebbe necessario moltiplicare le ricerche con questo orientamento, per contrastare le pericolosissime onde razziste, le chiusure localistiche, i decisionismi verticistici, le grettezze mediatiche. Si è preferito, invece, puntare su materie “classiche” (diritto e storia), eliminando la prima delle tre discipline fondamentali delle scienze sociali (antropologia, sociologia, psicologia). Il docente che la insegnava viene “esiliato” al terzo anno del corso di laurea di Cooperazione e Sviluppo, con una materia denominata Comunicazione Interculturale. Già nel titolo del corso si esprime la continuità di un dominio neo-coloniale dell’Occidente verso un mondo “altro”: che la “cooperazione” sia focalizzata a dare aiuti economici ai laureandi e ai rispettivi Paesi di residenza, piuttosto che all’“altro”, dovrebbe essere ormai evidente; e sulla critica al concetto di “sviluppo” sono stati scritti così tanti saggi prima e dopo il ‘68 che è noioso solo ricordarlo. Quindi si crea una materia come Comunicazione Interculturale, che fin dal nome rafforza chiusure identitarie e culturali, regressioni scientifiche e formative, che purtroppo appaiono in sintonia con quelle politiche da “lega romana” adeguate al clima imperante, in cui un cattolicesimo appiccicoso cerca di controllare governi e opposizioni, atenei, facoltà, docenti. I riferimenti cui la mia cattedra si è ispirata sono collocati, tra gli altri, nel filone antropologico inaugurato da Gregory Bateson: che, a partire dalle sue ricerche anticipatrici a Bali, hanno permesso di elaborare il doppio vincolo, concetto tra i più straordinari applicato sia alla comunicazione “normalmente” psico-patologica che ai mass media nascenti; fino alla sua collaborazione con Wiener per le primissime ricerche sulla cibernetica. Anziché dedicarsi a santi e madonne, processioni e proverbi – temi troppo spesso esclusivi nell’insegnamento di questa materia da noi – la ricerca antropologica di Bateson si inserisce nei flussi già all’epoca emergenti di comunicazione, tecnologia, alterità. Infine, questa lettera non rivendica nulla di personale (vado in pensione dal prossimo anno e lascio quindi questa Facoltà). Essa esprime un posizionamento politico-culturale che individua, nella crisi crescente e apparentemente irreversibile della Facoltà di Scienze della Comunicazione, un problema su cui indirizzare la riflessione critica nell’interesse di docenti, studenti, impiegati: di chiunque viva e respiri l’aria di un’università che cerchi di dare senso ai futuri possibili e non si limiti a replicare il peggio dei presenti mediatizzati.

maxx.canevacci@gmail.com

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