sabato 17 marzo 2007

Metodo e Media Design di Antonio Caronia

Questo primo decennio del secolo XXI (e, temo, ancora di più il prossimo) è cruciale per lo sviluppo della cultura e del sapere. Siamo in uno di quei momenti in cui i mutamenti più profondi della struttura economica e sociale si sono già prodotti (e ciò è accaduto negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso), ma, per un naturale processo di riflessione e di assestamento, soltanto adesso gli strati più avvertiti della società cominciano a rendersi conto dei cambiamenti di paradigma che caratterizzano la formazione di una nuova società.
In una situazione del genere il ruolo degli apparati di formazione e di trasmissione del sapere è particolarmente importante e pone problemi delicati. Tanto più ciò accade in un comparto come quello dell'Alta Formazione Artistica, perché i campi dell’espressione (arti visive, scrittura, mezzi di comunicazione) sono fra quelli in cui il terremoto della tarda modernità ha agito nel modo più brutale e sconvolgente.
In estrema sintesi: tenuto relativamente al riparo dai processi economici di formazione del valore nel periodo di strutturazione del capitalismo classico (secolo XIX – prima metà del secolo XX), negli ultimi venti-trent’anni il campo delle arti è entrato ormai pienamente all’interno dell’economia, il che comporta tanto un’espansione mai vista prima d’ora delle attività espressive e comunicative (testimoniata per esempio dall’uso e dall’abuso del termine “creatività”), quanto uno sconvolgimento dei parametri su cui queste attività si erano più o meno assestate nel corso della modernità. È vero che questo sconvolgimento era già stato anticipato, nella prima metà del secolo XX, dal lavoro delle varie avanguardie storiche: ma allora molte delle intenzioni di questi gruppi e di questi artisti erano rimaste lettera morta, non si erano veramente tradotte in esperienze espressive radicali. Oggi (in questo come in tanti altri campi) le tecnologie digitali dilatano all’inverosimile il campo del possibile e permettono letteralmente di realizzare anche i sogni più azzardati.
In una situazione del genere le istituzioni formative (la scuola in particolare) tendono a reagire in due modi opposti ma simmetrici ed entrambi ugualmente, tragicamente sbagliati. Possono da un lato arroccarsi nella difesa dei saperi, dei paradigmi del passato: di fronte all’obsolescenza dei paradigmi tradizionali, alla forsennata ricombinazione di forme, discorsi, narrazioni, resa possibile dalle tecnologie digitali, l’unica via può sembrare quella di resistere, di riaffermare canoni, estetiche, teorie consolidate, che però le pratiche sempre più estese dell’espressività diffusa sbaragliano senza difficoltà. Oppure possono abbandonarsi al flusso delle esperienze, favorire la ricchezza della “creazione” digitale, esaltare il potere ricombinante dei software informatici e mentali, e dichiarare (o praticare) la morte della teoria (o la sua ipotetica rinascita da una semplice moltiplicazione dell’esperienza, il che è la stessa cosa). Mi pare che in entrambi i casi la scuola non faccia che arrendersi alla sua innegabile crisi, e mettersi il cappio al collo da sola. In particolare un istituto di formazione superiore che facesse una di queste due scelte si condannerebbe alla marginalizzazione e a una rapida obsolescenza. Perché, contrariamente a quanto si può pensare, gli studenti che si iscrivono a una scuola del genere esprimono un’evidente domanda di essere aiutati a orientarsi nella selva dell’informazione e della sovrabbondanza di offerte esperienziali e “formative” che la società propone.

Credo quindi che gli assi di un’accademia di belle arti che voglia affrontare adeguatamente la sfida culturale e formativa della modernità debbano essere due, entrambi legati a una rivalutazione del ruolo della teoria (che non significa affatto dare delle formulette rigide e sorpassate di cui ogni studente scoprirebbe in breve tempo l’inutilità):

  1. la forte impronta metodologica degli insegnamenti;

  2. l’individuazione di uno o più campi “strategici” per la comprensione del presente e lo sviluppo delle attività espressive.

1) Per quanto riguarda il metodo, non si tratta tanto di offrire facili formulette “universali” buone per interpretare qualunque fenomeno, ma di affrontare la complessità dei fenomeni espressivi di ogni tipo (visivi, sonori, scritti, multimediali) discutendo e comparando “criteri” di codifica e decodifica della comunicazione, di formazione e di ricezione dell’espressività; la formazione non consiste nel somministrare formule preconfezionate, ma nel fornire strumenti di comprensione che consentano comunque di ordinare, classificare, selezionare (sia pure provvisoriamente) i flussi di comunicazione e di espressione.

2) Per quanto riguarda la centralità del campo di indagine, è evidente che ogni attività formativa nel campo comunicativo ed espressivo non può appiattirsi in un generico e onnicomprensivo concetto di “comunicazione”, ma deve articolarsi sulle forme che storicamente hanno incarnato questa funzione, e cioè sul concetto di “mezzo di comunicazione” o “medium”. Non esiste una generica attività di “communication design”, di “progettazione della comunicazione”. Così come non si “dipinge l’arte” ma si dipingono dei quadri, come non si progetta “l’arte interattiva”, ma si progettano e si costruiscono delle installazioni, così si usano, si progettano e si costruiscono strumenti per la comunicazione, cioè media. La tradizione (certo recente, ancora in via di consolidamento, ma già riconoscibile) a cui fare riferimento è quindi quella del “media design”, che si è sinora dimostrata la più duttile nel tener conto tanto della ricchezza espressiva delle esperienze comunicative quanto della complessità di progettazione e e di lettura dei fenomeni della comunicazione contemporanea.

Antonio Caronia

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